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Vi siete abbuffati durante le feste e non volete più sentir parlare di cibo fino al prossimo Natale? Allora questo articolo non fa per voi!
Ma se invece volete scoprire cosa si mangiava a Mantova nel 1931 provate a dare un’occhiata.

Ho scritto un articolo su Gazzetta di Mantova che parla della Guida Gastronomica del Touring Club Italiano, pubblicata nel 1931, e ci sono alcune conferme (tortelli e agnoli su tutti) e qualche sorpresa (almeno per me) come ad esempio che il piatto di Natale era il tacchino arrosto (come per il Ringraziamento negli Stati Uniti), che l’oca era onnipresente e che i vini mantovani erano “serbevoli”.

Vi riporto l’estratto della Guida Gastronomica dove si forniscono indicazioni sulla forma da dare al tortello di zucca.
“I tortelli mantovani sono  un  po’  più  grandi  degli  omonimi  emiliani, ed hanno  la forma  d’un cappello  napoleonico  che faceva  parte, altre volte,  del  costume   dei  portatori di  vino della Mantovana. E qui trovate la filastrocca di Ettore Berni:
“…dag la  forma  d’on  capèl;
e  s’at  vol  po’  fart’ onor, d’ on capèl da  <portador >;
e s’at  vol  chi  diventa fin fai pu gros d’on  agnolin.”

E voi come li fate i tortelli?

Qui di seguito potete leggere l’articolo completo o andarvi a leggere anche l’altro articolo della stessa serie che trovate qui e che è dedicato alla Mantova del 1915.

COSA SI MANGIAVA A MANTOVA NEL 1931? CE LO RACCONTA LA GUIDA GASTRONOMICA D’ITALIA DEL TOURING CLUB ITALIANO

Fatta l’Italia si dovevano fare gli italiani, come disse Massimo D’Azeglio, ma soprattutto occorreva che gli italiani iniziassero a conoscere il Paese visitandolo, apprezzandolo e scoprendone le particolarità.
La Guida Rossa del Touring Club Italiano nasce nel 1914 proprio con questo obiettivo. Mancava qualcosa però a questa guida che raccontava di monumenti, di chiese, di opere d’arte e di paesaggi: la cucina.
E’ per questo che nel 1931 il TCI (che nel 1937 sarebbe diventato Consociazione Turistica Italiana in ossequio all’italianizzazione dei termini stranieri voluta dal fascismo) pubblica la Guida Verde con il titolo Guida Gastronomica d’Italia. E’ un passo fondamentale perché la cucina d’Italia è da sempre regionale, provinciale e addirittura comunale e questo testo tenta di darle una sistemazione che sia accessibile a tutti.
Ci sono tutte le Regioni (dal Piemonte che è la prima alla Sardegna che è l’ultima) e c’è anche la provincia di Mantova ovviamente, cui vengono dedicate almeno 5 pagine (sulle 524 di cui è composta la guida) senza contare un approfondimento sui vini.
Ma partiamo dall’inizio e proviamo a leggere cosa scrive Arturo Marescalchi, enologo e politico, nella sua prefazione datata Roma, Capodanno 1931: “L’Italia, che presenta tanta varietà e bellezza di  panorami, tanta ricchezza di monumenti e di arte, è anche straordinariamente  interessante per le  manifestazioni della vita  del suo  popolo. La dovizia di bellezze naturali, storiche ed artistiche, da sola, direbbe che l’Italia è un magnifico museo in un ambiente incantevole, ma non giustificherebbe il fascino che in tutto il mondo desta il nostro divino Paese. Gli è che la vita del nostro popolo, in tutte le sue espressioni, aggiunge al quadro una propria vivacità originale piena di interesse.”
Nonostante il linguaggio aulico e desueto, tipico del periodo, è straordinaria la modernità di visione che traspare dal testo. Monumenti e bellezze artistiche fanno dell’Italia un museo, ma sono gli Italiani e il loro modo di vivere che “destano il fascino di tutto il mondo per noi”. Sembra di leggere quello che si trova in tutte le più recenti ricerche di marketing turistico che sottolineano come i viaggiatori cerchino non solo la bellezza dei luoghi ma l’esperienza di tutto quanto offre un Paese.
Marescalchi prosegue aggiungendo la motivazione che ha portato il TCI a realizzare la guida che forse invece di gastronomica avrebbe dovuto essere chiamata “agricola”. Ecco cosa dice: “Se  in aggiunta  alle magnifiche descrizioni di  città e paesi, di itinerari  turistici – ecco un’idea  del vostro benemerito Touring – il  viaggiatore avesse anche una guida agricola che sappia  far brillare quello che di nuovo, di  caratteristico, di bello, c’è in questa vita  rurale italiana, è da ritenersi che molte volte il cittadino scenderebbe ad una  modesta stazioncina sperduta nelle pianure o in fondo a qualche valle o inerpicata  sull’Appennino o sulle Alpi e andrebbe a godersi spettacoli che nulla han da invidiare  per gente di  spirito  e di  sentimento a quelli  della città.”
Siamo nel 1931 e questa guida agricola ha l’obiettivo di portare gli Italiani a frequentare anche le stazioncine sperdute (oggi diremmo uscite autostradali o aeroporti) per non perdersi nulla di un aspetto fondamentale del Paese. Marescalchi infatti afferma che: “La  presente guida  mette in luce un  altro aspetto  del nostro  popolo: cosa mangia  e come beve. Si dice <<come beve>> e non  <<cosa  beve>>     perché  l’Italiano, si  sa,  non beve che vino;   è la  sua  bevanda  millenaria  nazionale da cui nessuna   forza di  pubblicità esagerata e nessun tentativo di proibizionismo lo distorrà”.
Non dimentichiamo che chi scrive era un enologo e che, più avanti nel testo, prova ad associare il carattere del vino a quello delle persone: “E a proposito di vini, come non esser tentati a trovare affinità fra i caratteri del popolo e il vino che esso predilige e gli è bevanda abituale? Austeri, ruvidi, duri talora i vini del Piemonte, ma celano costanza, fermezza e sviluppano virtuosità di profumo. Fini, sottili, graziosi i vini dei colli veneti più rinomati. Rumorosi, espansivi, senza insidie celate i vini di certi paesi di Emilia e Romagna…”. E i Mantovani, e il lambrusco? Ma non bruciamo le tappe e riportiamo solo la conclusione della prefazione dove Arturo Marescalchi si lancia in una celebrazione dei nostri prodotti e del nostro modo di vivere che, opportunamente modernizzata, non sfigurerebbe su un sito internet dedicato al turismo: “E i prodotti della terra e del nostro incantevole clima mediterraneo, l’opera della nostra gente, geniale sempre anche nel manipolare cibi, farine, carni, latte; la varietà stragrande di frutta deliziose e di vini prelibati, veri figli del sole ardente e dell’azzurro cielo d’Italia, avranno la loro maggiore e migliore valorizzazione in faccia agli Italiani del mondo.”
Ecco a cosa doveva servire questa guida: agli Italiani per conoscere le cucine delle altre regioni, agli stranieri per capire cosa fa davvero dell’Italia un Paese unico al mondo!
Ma come si fa nel 1931 a fare una guida così estesa senza internet e l’e-mail? A pensarci oggi sembra un’impresa impossibile. E invece si fa e la si costruisce dal basso (a differenza di tante pubblicazioni che oggi invece vengono calate dall’alto e sono o piene di errori o così generiche da essere inutili). Ecco cosa leggiamo nelle Note preliminari: “Un   questionario dettagliato venne trasmesso ai 5000 Consoli, ai 1800  Medici, ai 600 Farmacisti del Touring” ma non ci si ferma qui e si chiede anche alla Presidenza della Confederazione Nazionale  Fascista Agricoltori e si procede anche con i 92 Consigli  Provinciali dell’Economia, 100 fra  Associazioni, Cooperative, Consorzi Agrari, numerosi  Fasci provinciali femminili (e vorrei vedere visto che si parla di cucina),  400  Podestà, 300 Direttori didattici delle  principali Scuole  d’Italia, 500 Maestri elementari e da ultimo anche le aziende (100  Ditte produttrici di specialità gastronomiche e chissà se ce n’era qualcuna mantovana) numerosi direttori e cuochi di  alberghi  e  di  trattorie ed  infine i Soci.

E la Guida Verde si fa e, ancora oggi come scopriremo nel proseguo dell’articolo, è straordinario vedere come è accurata, precisa e soprattutto piena di vita e di passione.
Il testo è suddiviso per Regioni e Province e nell’indice si trovano curiosità come la provincia di Fiume e quella di Zara che erano all’epoca italiane dopo la vittoria nella Prima Guerra Mondiale. La specialità di Fiume sono gli scampi, quella di Zara i radicchi. Per noi è interessante leggere l’introduzione alla Regione Lombardia e soprattutto il fatto che parli di formaggi e non citi la Provincia di Mantova. Ecco cosa scrive la Guida Verde: “E’ caratteristica saliente della Lombardia la singolare abbondanza dei prodotti alimentari. Il fertile suolo produce in grande copia cereali e verdure d’ogni sorta, nei campi e negli orti ben coltivati; vigne e frutteti rivestono le ubertose colline, s’arrampicano fin sui contrafforti delle giogaie alpine, e danno magnifiche frutta  ed uva per vini prelibati.” Forse oggi facciamo fatica a pensare alla Lombardia quando leggiamo una descrizione così eppure è davvero una regione ancora molto agricola e la cui produzione lattiera casearia è ancora ai vertici (nel testo si parla di 2500 latterie e caseifici). La Guida poi descrive le specialità lombarde magnificando il burro e descrivendo i singoli formaggi come il gorgonzola e il grana. Qui per i Mantovani di oggi (ma anche e soprattutto per i Reggiani e i Parmigiani) è sorprendente vedere che non si cita la nostra provincia tra quelle produttrici ma solo il Lodigiano e soprattutto che si parla di Grana, reggiano e parmigiano (la guida li tiene distinti) che viene prodotto anche in Lombardia. La Guida pertanto non può registrare una caratteristica attuale che rende la provincia di Mantova unica in Italia: vi si producono entrambi i Grana, sia il Padano che il Parmigiano Reggiano.

Proseguiamo nello sfogliare della Guida Gastronomica e arriviamo finalmente alla Provincia di Mantova. Ecco la descrizione iniziale: “Plaga eminentemente agricola, la provincia di Mantova  è  ricca  dei  più  svariati prodotti alimentari”. Poi il testo procede iniziando a elencare i prodotti e passando poi alla cucina. E’ molto interessante il fatto che vengano inseriti tra parentesi anche i termini dialettali che danno più colore alla descrizione. Si parte con i vegetali: “Primeggiano tra i  vegetali: gli  asparagi di  S. Benedetto Po,  grossi,  teneri e saporiti; le insalate di lattuga  e di  cicoria  che  il  costume locale  vuole  condite con  salsa   calda   d’acciughe e  di  pancetta; le  grandi zucche gialle,  dolci e gustose, che si fanno cotte al forno e che servono altresì per il ripieno  dei tortelli mantovani;  le cipolle  (sigulòt) a gambo  rosso,  senza  ingrossamento di  bulbo  ed  a  stelo  tutto  commestibile, che servono per i soffritti, le insalate e la  frittata (fartàda coi sigulòt); i tartufi neri  che si raccolgono in abbondanza nelle piaghe lungo il Po. Frutta pregiate sono i pomi campanini, mele  dalla forma  oblunga, a buccia colorita  e  polpa  molto  consistente, che  si conservano tutto l’inverno e  si  esportano largamente, prodotte nel Quistellese, e le grosse  angurie  (cocomeri)  di  color rosso  fuoco,  dolcissime,  succose,   che   sono   prodotte nella  ben  irrigata pianura mantovana; caratteristiche sono le cosiddette castagne di lago – in  dialetto  trigoli – frutti delle  ninfee  che  vegetano sui  laghi  del  Mincio, di  polpa   cerea   e  di  sapore  dolciastro,  che  son venduti per le vie di Mantova.” Saltano all’occhio subito gli asparagi di S. Benedetto, che ricordano la tradizione monastica, le cipolle per la “fartàda”, i tartufi neri, i pomi campanini che, sottolinea la guida, si conservano tutto l’inverno e si esportano largamente (probabilmente fuori provincia) e da ultimo i trigoli, le castagne di lago, che sono l’unico prodotto che non si mangia più ma che all’epoca venivano venduti per le vie di Mantova.
Si passa poi all’allevamento dove, udite, udite non si parla dei maiali (anche se poi vengono inseriti tra le lavorazioni le carni suine). Ecco la descrizione della Guida: “Nelle  campagne si  fa  grande allevamento di  bestiame per il consumo locale e per l’esportazione: nelle risaie si allevano e si ingrassano i tacchini che si esportano specialmente in  Inghilterra: il tacchino arrosto (pitonsina ‘d risera) è piatto di Natale nel Mantovano; con esso si fa anche  il  polpettone di  tacchino . Cospicuo è l’allevamento del pollame, di  cui  pure  si  fa sempre commercio; notevoli i giganteschi capponi dalla  carne delicata  e  appetitosa, nel  brodo   dei  quali   si  usano cuocere  gli agnolini mantovani. In tutta  la  provincia è diffuso   l’allevamento  delle   galline  faraone e delle oche,   le  quali   hanno larga  parte nella  culinaria   locale;  sui  laghi  del Mincio  si  caccia  l’anitra selvatica, ottima per  preparare appetitosi condimenti ai risotti”. Quanto diversa è la situazione rispetto ad oggi: si esportano tacchini in Inghilterra e sarei davvero curioso di assaggiare il tacchino arrosto (che in dialetto si chiama pitonsina ‘d risera) ma soprattutto le oche hanno larga parte nella culinaria locale (che oggi mi sembra invece una tradizione perduta) e si caccia ancora sui “laghi del Mincio”. Ecco poi cosa si dice dei pesci: “Pure nei laghi  del  Mincio si  pescano  anguille, pesce persico,  barbi, lucci, tinche e degli storioncini chiamati pursline;  nel  Po  lo  storione e le  anguille; nelle risaie  le  carpe  e le  tinche”. Come non rimanere affascinati dagli storioncini (pursline) e soprattutto dei pesci da risaia. Di questa pesca povera vengono citati anche due prodotti che si trovano ancora in alcune trattorie di Mantova e che sono rimpianti da molti Mantovani. Parliamo dei Saltarei (i gamberetti di fiume) e delle rane (che ricordava abbondanti anche il Petrarca durante un suo soggiorno mantovano nel 1350). Ecco come li descrive il testo del Touring Club Italiano: “Cibo popolare a Mantova sono  i saltarèi, piccoli gamberi che si raccolgono nei laghi  del  Mincio e negli stagni  circostanti.  Nell’intera  provincia si  fa  molto consumo di  rane   (nei  mesi  coll’r), specialmente  preparate <<in guazzetto >>.” E’ curioso che si dica che le rane si mangiano solo nei mesi con la R: non si mangiavano d’estate e quindi neanche a gennaio ma in tutto gli altri periodi se ne faceva largo consumo (ancora oggi un’Osteria di Mantova è intitolata ai pescatori di rane).

Finalmente si chiude l’elenco dei prodotti con il maiale e i salumi dove ci sono alcune specialità interessanti e oggi forse perdute. Ecco l’elenco che ne fa la Guida: “La lavorazione delle carni  suine  è fiorente in  tutta la  regione  e fornisce  prodotti assai  pregiati in fatto  di salumi d’ogni genere.  Sono  fra  essi  da  segnalare le salamelle,  specie  di  salsiccie  d’inverno, che  si  adoperano  per  condire  il riso,  e si cucinano ai ferri  o al  tegame  con  burro  e  vino  bianco;  il salame  all’aglio, simile a  quello  di  Verona  e com’esso assai  pregiato; il salame di lingua  di maiale,  specialità del  Basso  Mantovano,  ove lo si mangia per tradizione nel giorno  dell’Ascensione. Di Viadana sono  rinomati i salami, le bondiole,  i  cappellotti.” Qui fa sorridere che si metta a confronto il salame mantovano con quello di Verona (entrambi pregiati) ma soprattutto il salame di lingua di maiale e specialità come “le bondiole” (impasto di cotechino ma insaccato come la salama da sugo ferrarese) e il “cappellotto” che è il cappello del prete, il salume a forma triangolare.
Finalmente è il turno della cucina con le sue pietanze e ricetta (che il testo chiama confezioni) e sono diverse da quelle lombarde. Questa unicità di Mantova nel contesto della regione di cui fa parte è ben evidenziato dall Guida che recita: “La   cucina   mantovana  si  discosta  sensibilmente dalla lombarda in  molte  confezioni, le quali  rientrano piuttosto nel tipo  delle emiliane, ed ha  parecchie pietanze  caratteristiche”. L’elenco parte con due cavalli di battaglia come i tortelli e gli agnolini e qui (chissà chi gli ha mandato le informazioni o se si facevano davvero così) occorre sottolineare due particolarità: per i tortelli si usa la mostarda di Cremona e gli agnolini sono tortellini affini a quelli bolognesi. Ma leggiamo la guida e quello che dice: “<<Tortèi>.  -Tortelli (l) con ripieno  di zucca cotta al forno,  mostarda di Cremona, amaretti pesti  e pane grattugiato,  formaggio, uova  e noce  moscata; lessati si condiscono con abbondante burro e formaggio grattugiato. È la tipica minestra mantovana, rituale nella cena della vigilia di  Natale. A Viadana si chiamano blisgon (scivoloni). Agnolini. – Sono   tortellini affini  a  quelli   bolognesi, che nel Viadanese si chiamano marubin, e  nell’oltre Po, a Gonzaga  e Suzzara, caplét; il ripieno  è composto  di  stracotto, pancetta di  maiale,  salamelle, fegatini  di  pollo,  pan  grattato, uova  e formaggio. Si mangiano  in  brodo   e  costituiscono la  pietanza tradizionale  delle mense  mantovane nelle feste  di Natale, Capodanno, Epifania,  Carnevale e  Pasqua.” E qui le tradizioni non sono cambiate visto che si dice che si può riconoscere un mantovano dal fatto che mangi senza problemi il panino con il cotechino sotto il sole d’Agosto alla Fiera delle Grazie e possa gustare un sorbir d’agnoli bollente con 40° gradi all’ombra. Per far capire bene la forma dei tortelli di zucca che accomunano Mantova a Ferrara, Cremona e Crema (la potremmo chiamare “la faglia dei tortelli”) la Guida Verde riporta questa nota insieme ad una filastrocca di Ettore Berni. “I tortelli mantovani sono  un  po’  più  grandi  degli  omonimi  emiliani, ed hanno  la forma  d’un cappello  napoleonico  che faceva  parte, altre volte,  del  costume   dei  portatori di  vino della Mantovana. E qui trovate la filastrocca: …dag la  forma  d’on  capèl; e  s’at  vol  po’  fart’ onor, d’ on capèl da  <portador >; e s’at  vol  chi  diventa fin fai   pu uros d’on  agnolin.” Saltiamo le tagliatelle (fuiàde) e i Bìgui  con le sardèle e arriviamo al Risotto alla Pilota (senza citazione del Puntel). Ecco la descrizione accurata della preparazione: “È  piatto  tradizionale delle  zone risicole,  ove si chiamano << piloti >>  gli operai addetti alla  pile di riso.  È fatto con riso delle  migliori qualità bollito  in  acqua dosata in  rapporto alla  sua quantità e potere d’assorbimento, di  modo  che  quando sia  giunto a cottura i chicchi  rimangono ben sgranati e scivolano facilmente l’uno sull’altro;  lo si condisce con un  pesto  di salamelle e burro fuso,  cotto per almeno otto ore  a fuoco lentissimo in  modo  che esso conservi la sua morbidezza, il profumo e il colore  naturale. Nelle trattorie d’alcuni centri della provincia­ come  a Bigarello, Castel  d’Ario, Roncoferraro, Villimpenta  – questa  pietanza  prelibata  ha   preparatori abilissimi. Lo stesso piatto si trova  anche nella  pianura veronese .” Anche qui le cose non sembrano cambiate, anche dal punto di vista delle zone rinomate per questa ricetta. Ma finalmente si arriva all’oca, di cui oggi si è persa un po’ la tradizione e che veniva sicuramente anche dalla cultura ebraica. La si trova in mille forme e qui forse è il punto della guida che è più diverso dalla cucina mantovana attuale, basta leggere il testo: “Pietanze  di carne d’oca. – Sono   molto in  onore nel Mantovano: si fanno le casseruolette d’oca in umido con vari legumi, le  polpettine d’oca, il risotto con grasso d’oca, i salami  d’oca,  il fegato  d’oca, per  ottenere il quale – grasso   e  ipertrofìco – le  oche  sono  sottoposte   ad   un   regime   speciale.  Si   usa   conservare  i quarti  d’oca entro  olle  di   terracotta,   immersi nel loro  finissimo grasso.” Si passa poi ai prodotti da forno dove insieme a chisole e chisoline (le nostre schiacciatine che la guida invita a mangiare con salame e vino bianco e cita anche quelle ai ciccioli di maiale) e bussolani cita anche una ricetta che sicuramente non si trova più: “Torta di sangue di maiale. -Si prepara nell’epoca della  macellazione dei  suini e corrisponde al  sanguinaccio  o al migliaccio  di altre regioni: è fatta con sangue  di  maiale   a  cui si  mescolano pignoli,  uva  passa, canditi.” Quanti di noi oggi riuscirebbero a mangiare questo dolce: i tempi cambiano e i gusti pure. Prima di passare ai vini vorrei però riportare anche la descrizione di alcuni dolci molto particolari: i caldi dolci, il sugolo e i tortelli di fagioli (e questi sinceramente non li avevo mai sentiti). Ecco come li descrive la Guida del Touring Club Italiano: “Caldi-dolci. – Son  fatti di  farina bianca e gialla, miele, pignoli  ed uva  passa,  in forma  di pigna; si cuociono al  forno  e si  mangiano caldi.   È dolce  della  ricorrenza dei  Morti:  simile  ad  essi è il   pan dei morti dell’alto Mantovano. Sùgol.  – È preparato con  mosto  d’uva e farina bianca,  tirato a  concentrazione con  l’ebollizione: affine ai  sughi  dell’Emilia. Tortelli  di  fagioli. -Tortelli  riempiti con  un  impasto finissimo  – ottenuto con lunga  pestatura e passato  al  setaccio -di fagioli  lessati, mele,  gherigli  di noce, pane  grattato, cedro  candito, chiodi  di garofani, corteccia   di  limone;  parte dell’impasto è  diluito con vino rosso  e vino  bianco,  in cui si mettono in guazzo, durante un giorno,  i tortelli dopo  cotti. È dolce  della Bassa  Mantovana, ove  si  fa  specialmente nella Settimana  Santa.” Mi piacerebbe moltissimo assaggiare i tortelli di fagioli e invece devo ammettere che all’inizio ho avuto un rapporto difficile con i caldi dolci che è una preparazione da Mantova e dintorni. Io, che son cresciuto tra Castellucchio e Cimbriolo, non li avevo mai mangiati e non mi piacevano mentre adesso devo dire che non riesco a fare un anno senza mangiarne almeno uno. I Caldi dolci sono come le campane di Sant’Andrea: degli indicatori di mantovanità. La parte relativa a Mantova si conclude con “il chisol,  schiacciata di  farina  bianca   e gialla con uva  passa,  noci o pignoli,  cotta allo strutto, simile alla  quale  è la  sbrisolada o lobbia, detta anche torta  sbrisolona,  ambedue proprii al contado” (e quindi a differenza dei caldi dolci indicatori di cultura provinciale e contadina n.d.r.) la mostarda (che è specialità di Gazzuolo) e il Nocino.

In un altro capitolo si parla invece di vini e la cosa che mi ha sorpreso è che non viene citato nemmeno una volta il nome Lambrusco (che invece è riportato tra i vini modenesi per eccellenza). Leggiamo cosa riporta la Guida Gastronomica: “L’uva è coltivata estesamente nel  Mantovano, specialmente  nella   parte bassa,   a  cavallo del  Po,  e vi si producono buoni  vini  rossi  e bianchi. Particolarmente rinomati  sono   i  VINI   DEL  SERRAGLIO, zona fra  l’Oglio e il Mincio, comprendente i comuni di Curtatone, Virgilio e parte del territorio di Bagnolo S.  Vito;  sono   bianchi e  rossi,  moderatamente  alcoolici,  di  gradevole sapore, serbevoli. Buoni   vini  bianchi sono  pure  quelli  di  Gazzoldo degli  Ippoliti e di S. Benedetto del   Po.   Vini   rossi   pregiati  si  ottengono nella  zona  prossima al Garda, a Castel  d’Ario, Governolo,  S.  Giorgio,  Cavriana, Volta  Mantovana e Monzambano; vini rossi, scuri  e pieni, nel territorio di Viadana e piuttosto salati in  quello  di  Quistello.” Confesso che sono andato a vedere cosa vuol dire “serbevoli” e significa buona capacità di invecchiamento, un aggettivo che non avrei mai abbinato ai vini mantovani e invece il Touring la pensava così.
Leggere la Guida Gastronomica è una continua scoperta e soprattutto fa pensare a come ci sia una continua evoluzione nei tipi di prodotti, nelle ricette ma soprattutto nei gusti. Tra l’altro la guida parla di Regioni e Province ma in Italia sappiamo che, quando si parla di cucina, si può scendere ancora ai comuni, alle frazioni e addirittura alle case o ai pianerottoli. Per questo chiudo con i 5 tipi di tortelli di zucca che io ho individuato, in modo non scientifico, ma che sicuramente riconoscerete anche voi. Tuttavia devo ammettere che in questa cinquina non si parlerà dei diversi tipi di ripieno o dei diversi tipi di condimento o dello spessore della pasta: su questi temi si rischia di crearsi nemici in ogni casa. La mia cinquina riguarda chi i tortelli li fa ma soprattutto chi i tortelli li mangia perché, come sempre accade in cucina, l’esperienza del cibo è data sì dalla qualità del prodotto ma soprattutto anche dal momento in cui si mangia, dalla compagnia a tavola e soprattutto dalla cultura di chi mangia. Eccovi allora la mia personale cinquina sui tortelli di zucca.

I tortelli della mamma – sono i tortelli migliori del mondo e sono inimitabili. Qui la qualità viene in secondo piano ed è l’emozione, l’amore e la storia familiare con cui sono conditi a fare la differenza. E’ un po’ come accade al critico gastronomico Ego quando il topolino gli propone come piatto la ratatouille e lui viene automaticamente ripiombato nell’infanzia, quando gliela faceva la sua mamma. Quando a volte le mogli vengono affrontate con la classica frase “Ma quelli della mamma sono meglio (nel senso dei tortelli)” è inutile chiedere la ricetta: gli ingredienti che fanno la differenza tra i tortelli della mamma e quelli degli altri (fossero anche quelli de Il Pescatore di Runate) non si trovano al supermercato ma nel cuore di ognuno di noi.

I tortelli della moglie (o della suocera che è la stessa cosa) – sono quelli che vengono messi a paragone con quelli della mamma. Non potranno mai essere meglio ma diventeranno un nuovo classico da confrontare con quelli che si mangiano a casa di amici, si acquistano al negozio o al ristorante. E qui diventa anche fondamentale il condimento con varianti che individuano automaticamente la provenienza geografica della moglie. Ad esempio nel mio caso i tortelli di zucca della vigilia sono conditi con pomodoro in cui viene fatta cuocere la salsiccia che serve solo a profumare il sugo ma viene poi tolta prima di servirli (altrimenti il giorno di magro andrebbe a farsi benedire). Suggerisco di evitare, soprattutto alla Vigilia commenti del tipo “Ma mia madre ci metteva…” oppure “la pasta mi sembra troppo sottile”: sono scoppiate guerre per molto meno.

I tortelli del Ristorante – ognuno ha un suo ristorante preferito dove va  a mangiare i tortelli di zucca che devono essere il più simili possibili a quelli della mamma o della moglie oppure così diversi da non poter essere paragonabili. E qui si sprecano i commenti alla “Ma i tuoi sono meglio” o all’”Avrei messo più amaretto” oppure “ma gli è caduta dentro la noce moscata”, fino ai più raffinati che disquisiscono sulla tipologia di mostarda utilizzata per il ripieno “le mele campanine non erano della migliore annata”. Si suggerisce di cercare un ristorante che faccia i tortelli di zucca come si facevano in famiglia, magari con qualche difetto di forma e con un ripieno e un condimento che nascono dal cuore e che facciano sentire a casa chi li mangia.

I tortelli del negozio – questi sono i tortelli che tutti almeno una volta hanno comprato, vuoi perché non c’è più la mamma che li fa e la moglie non sa cucinare o viene da fuori Mantova, vuoi perché gli ospiti si presentano all’ultimo e vogliono assolutamente mangiare questo piatto tipicamente mantovano. Allora non resta che rivolgersi al negoziante di fiducia che però deve fare dei tortelli che sembrino fatti in casa perché quasi sempre la padrona di casa non vuole confessare di averli comprati. E’ una ricerca difficile, fatta di assaggi e prove successive per verificare quali siano i tortelli più vicini al nostro gusto personale. Ci sarà il negozio dove li fanno a macchina, quello dove li chiudono a  mano e quello che riesce ad inserire un ingrediente oramai quasi impossibile da trovare: la passione di fare i tortelli pensando al piacere di chi li mangerà.

I tortelli della scuola di cucina – quando qualche marito vuole mettersi in gioco sul tema dei tortelli (ed ha abbastanza coraggio per farlo) non può imparare dalla mamma o dalla moglie. Queste due figure mitologiche vanno a memoria e pertanto non sono le migliori insegnanti del mondo perché spesso, come succede a chi ormai cucina ad occhi chiusi, dimenticano di segnalare qualche passaggio o qualche ingrediente e allora i risultati sono pessimi. Inoltre se capitate con una purista della forma del tortello non sarete mai all’altezza: hai messo troppo ripieno o ne hai messo troppo poco, hai piegato male o non sei abbastanza veloce fino ad arrivare al “tu sistemali sul vassoio che al resto penso io”. Allora non resta che rivolgersi ad una scuola di cucina dove almeno tutti i passaggi sono elencati e gli insegnanti sanno di avere a che fare con dei neofiti e hanno tutta la pazienza del mondo (ma attenzione che anche questa prima o poi finisce…).

Pubblicato su Gazzetta di Mantova del 15 dicembre 2020