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E’ un libro particolare questo di Aldous Huxley perché mette insieme articoli sul viaggio e tutti i suoi elementi: dalle guide turistiche ai libri da portarsi dietro durante il percorso, dai luoghi alle esperienze. Ci sono molti spunti legati all’Italia (e ci sono anche Sabbioneta e Mantova) ma quello che mi ha particolarmente colpito è il saggio dedicato al Palio di Siena.

E’ interessante perché osservato dal punto di vista di un inglese negli anni 20 del 1900 ed ha la mia stessa opinione sul Palio: “Gli ultimi giorni di giugno che precedono il primo Palio, la settimana di metà agosto che precede il secondo, sono giorni di crescente eccitazione e tensione in città. Si gode tanto di più il Palio dopo averli vissuti.”.

Se vi viene voglia di andarlo a vedere il Palio andateci qualche giorno prima, girate per le vie, andate nelle chiese e nei musei delle contrade, provate ad ascoltare i discorsi dei senesi e partecipate ad una delle cene della sera che precede il palio.

Ecco un altro passo del saggio dove si parla dell’autenticità del Palio: “No, il Palio è soltanto spettacolo; non ha nessun <significato> particolare ma, per il semplice fatto di mantenere in vita una tradizione, significa infinitamente di più di quei deprimenti pasticci con tutta la loro vuota poesia parkeriana e le loro drammatiche rievocazioni.”

Anche quest’anno purtroppo non riesco ad esserci ma ho un amico che mi racconta la dietrologia della corsa e me lo fa vivere seppur in differita.

Per approfondire su questo blog

Il Palio nel 2025

Palio dell’Assunta – Il Palio è stato vinto dal Valdimontone. Qui trovate le contrade con l’ordine di ingresso al canape e tante altre informazioni.

Qui potete vedere il video della corsa https://www.ilpalio.siena.it/5/Filmati/20250816.mp4

Palio della Madonna di Provenzano – è stato rimandato e si è corso il 3 luglio. Ha vinto l’Oca. Qui trovate l’ordine di ingresso al canape e tante altre informazioni.

Qui potete vedere il video del Palio https://www.ilpalio.siena.it/5/Filmati/20250702.mp4

Il Palio di Siena (di Aldous Huxley da Lungo la strada Frassinelli . pag. 69-79)

Le nostre stanze erano in una torre. Dalle finestre si vedeva, al di sopra dei tetti di tegole brune, il duomo sulla sua collina. Cento piedi più sotto c’era la strada, uno stretto vicolo fra alti muri, perennemente senza sole; le  voci dei passanti salivano rimbombando come da un baratro. Là sotto si camminava sempre nell’ombra; nella nostra torre godevamo fino all’ultimo la luce del sole.

Nelle giornate calde faceva più fresco giù nella strada: ma noi almeno avevamo il vento. Arrivava a ondate, si rompeva contro la torre e riprendeva a scorrere sui due lati. E alla sera, quando solo i campanili, le cupole e i tetti più alti erano ancora incendiati dal sole al tramonto, le nostre finestre erano a livello del volo di rondini e rondoni. Nei tramonti di tutta quella lunga estate saettavano e roteavano intorno alla nostra torre. C’era sempre uno stormo che eseguiva complicate evoluzioni proprio davanti alla nostra finestra. Deviavano bruscamente in tutte le direzioni, si tuffavano e risalivano, arrestavano il loro volo precipitoso con un battito delle lunghe ali appuntite e facevano una virata su se stesse.

Solide, agili, affusolate, parevano l’incarnazione dell’eterea velocità. E il loro grido sottile, acuto, fulmineo era la velocità fatta suono. Stavo alla finestra a guardarle tracciare i loro complicati arabeschi fino a esserne stordito, finché le loro stridule grida parevano sorgere dentro le mie orecchie e il loro volo mi sembrava un moto continuo, guizzante straordinariamente multiplo, che sorgesse dietro i miei occhi. E intanto il sole declinava, le ombre si arrampicavano sempre più in alto su case e torri, e la luce che ancora indugiava sulle loro cime si faceva più rosea. Infine l’ombra raggiungeva anche queste, e la città si adagiava in un grigio e denso crepuscolo sotto il pallido cielo.

na sera, verso la fine di giugno, mentre sedevo alla finestra guardando il volo degli uccelli, udii attraverso le grida delle rondini un rullo di tamburo. Guardai giù nel vicolo in ombra ma non vidi nulla. Il suono si fece sempre più forte e improvvisamente, dall’angolo dietro il quale girava il vicolo, comparvero tre personaggi usciti da un affresco del Pinturicchio. Erano vestiti in costume verde e giallo giubbetto giallo con bordi e riporti verdi, calze e scarpe dei due colori, e altrettanto i cappelli piumati. Il suonatore di tamburo era in testa. Gli altri due seguivano portando bandiere verdi e gialle. Proprio sotto la nostra torre la via si allargava in una minuscola piazza. In questo spazio vuoto i tre personaggi di Pinturicchio fecero una sosta, e la piccola folla di bimbi e di sfaccendati che li seguivano da presso si radunarono intorno a loro in attesa. Il suonatore di tamburo accelerò il rullo e i due sbandieratori avanzarono al centro della piazzetta. Restarono lì immobili per un momento, con il piede destro un po’ in avanti rispetto all’altro, iI pugno sinistro sul fianco e le bandiere abbassate nel destro. Poi contemporaneamente le sollevarono e cominciarono a sventolarle intorno alle loro teste. Nel movimento circolare le bandiere si aprirono. Erano della stessa misura, entrambe gialle e verdi, ma con i colori disposti secondo un diverso disegno. E la bellezza di quei disegni! Non si può immaginare niente di più <moderno>. Potevano essere state disegnate da Picasso per i Balletti Russi.Se fossero state di Picasso, i critici più autorevoli le avrebbero definite futuristiche, come il jazz più scatenato. Ma non erano di Picasso; erano state disegnate quattrocento anni prima dal genio innominato che preparava lo spettacolo annuale dei senesi. Di conseguenza, i critici possono soltanto levarsi il cappello. Queste bandiere sono classiche, sono arte nobile; non c’è altro da dire. Il tamburo continuava a rullare. Gli sbandieratori agitavano i loro drappi con tanta arte che l’intero disegno colorato era sempre visibile in tutta la sua estensione, ondeggiante nell’aria. Si passavano le bandiere da una mano all’altra, dietro la schiena, sotto una gamba sollevata. Infine, raccogliendo le forze per compiere uno sforzo supremo, le lanciarono per aria. Esse salirono in alto, roteando in un movimento ascendente lento e continuo, rimasero sospese un istante al culmine della loro traiettoria, poi ricaddero, con la pesante asta all’ingiù, verso i lanciatori che le afferrarono prima che toccassero terra. Un ultimo sventolio, poi il tamburo riprese il suo ritmo di marcia, gli uomini si misero in spalla le bandiere e, seguiti dai bimbi e dai fannulloni anacronistici del ventesimo secolo, i tre giovani virtuosi del Pinturicchio si incamminarono spavaldi su per la strada buia, mentre i rulli di tamburo si facevano sempre più fievoli fino a svanire del tutto.

In seguito ogni sera, quando le rondini si lanciavano nei loro voli e nei loro gridi intorno alla torre, udimmo il rullo del tamburo. Ogni sera, nella piazzetta sotto di noi, prendeva vita un frammento del Pinturicchio. A volte erano i nostri amici in verde giallo che ritornavano sventolare le loro bandiere sotto le nostre finestre. A volte erano i rappresentanti di altre contrade o zone della città, in blu e bianco, rosso e bianco, nero, bianco e arancione, bianco, verde e rosso, giallo e scarlatto. I giubbotti e le calze di due vivaci colori spiccavano sui grigi e i neri funerei della piccola folla del ventesimo secolo che li circondava. I gonfaloni spiegati ondeggiavano nella strada come ali colorate di immense farfalle. Il tamburo accelerava il suo ritmo e un rullo prolungato accompagnava i lancio delle bandiere che si arrotolavano e vibravano nell’aria.

Per lo straniero che non ha mai assistito a un palio queste prove generali sono un anticipo molto eccitante. Affascinato da questi primi assaggi, si prepara con impazienza a ciò che gli riserva la grande giornata. Anche i senesi sono eccitati. Lo spettacolo, pur familiare, non li stanca mai. E l’appassionato di gioco che è in loro, il patriota locale, aspetta ansiosamente il risultato della gara.

Gli ultimi giorni di giugno che precedono il primo Palio, la settimana di metà agosto che precede il secondo, sono giorni di crescente eccitazione e tensione in città. Si gode tanto di più il Palio dopo averli vissuti.

Perfino il sindaco e il consiglio comunale sono contagiati dall’emozione generale. Sono talmente compresi dell’importanza dell’avvenimento che negli ultimi giorni di giugno mandano una squadra sulla piazza del Palazzo Comunale a sradicare ogni filo d’erba o ciuffi di muschio cresciuti nelle fessure fra le pietre. È quasi una caratteristica nazionale, questo odio per le cose naturali che crescono fra`le opere dell’uomo. Ho visto spesso nelle vecchie città italiane degli operai impegnati a strappare le erbacce nelle vie e nelle piazze meno frequentate. Il Colosseo, invaso fino a trenta o quarant’anni fa da una vegetazione piranesiana e romantica di arbusti, erbe e fiori, è stato ufficialmente ripulito con tale energia che il suo aspetto di abbandono e rovina è notevolmente aumentato. Nei pochi mesi che durò quel lavoro sono state fatte crollare più pietre di quante ne fossero spontaneamente cadute nei mille anni precedenti. Ma gli italiani ne furono soddisfatti; il che, in fondo, è la cosa più importante. Il loro odio per la vegetazione selvatica è alimentato dall’orgoglio nazionale; un grande paese, soprattutto se si vanta di essere moderno, non può permettere che le erbacce crescano neppure fra le sue rovine. Capisco e condivido in pieno il punto di vista degli italiani. Se Ruskin e i suoi discepoli avessero parlato di me e della mia casa come parlavano dell’Italia e degli italiani, mi farei anch’io un punto d’onore della mia modernità; installerei bagni, riscaldamento centrale, ascensore, farei raschiare tutta la muffa dai muri, farei ricoprire di linoleum i pavimenti di marmo. Davvero, credo che nella mia irritazione farei abbattere l’intera casa per costruirne una nuova. Considerata la provocazione che hanno ricevuto, mi pare che gli italiani siano stati notevolmente moderati in fatto di diserbamento, distruzioni e ricostruzioni. La loro moderazione è in parte dovuta, non c’è dubbio, alla loro relativa povertà. I loro antenati costruivano case di una tale prodigiosa solidità che abbatterne una vecchia costerebbe come costruirne una nuova. Pensate, per esempio, se dovesse demolire il Palazzo Strozzi di Firenze. Comporterebbe una fatica pari a quella di demolire il Cervino. A Roma, che è in prevalenza una città barocca del diciassettesimo secolo, le case sono fatte di materiale più leggero. Di conseguenza, là il processo di modernizzazione è molto più rapido che nella maggior parte delle altre città italiane. Nella più ricca Inghilterra si sono lasciati in piedi pochissimi monumenti antichi. La maggior parte delle grandi case di campagna inglesi furono ricostruite durante il diciottesimo secolo. Se l’Italia avesse mantenuto la sua indipendenza e la sua prosperità durante il diciassettesimo, il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, ci sarebbe probabilmente un numero molto minore di costruzioni medievali e rinascimentali di quante invece ne sopravvivono. La mancanza di denaro, dunque, impedisce la completa modernizzazione.

L’estirpazione del verde ha merito di essere a buon mercato ed è nello stesso tempo ricca di simboli. Quando si dice di una città che l’erba cresce nelle sue strade, si intende che è completamente morta. Viceversa, se non c’è erba nelle strade, significa che è ben viva. Certamente il sindaco e il consiglio comunale di Siena non mettevano la questione in questi termini. Ma che la questione esistesse in modo vago in fondo ai loro pensieri, non lo metto in dubbio. Il diserbamento era simbolo di modernità.

Con gli addetti a questo lavoro arrivavano altri operai che costruivano tutto intorno ai lati curvi della piazza grande una serie di gradinate di legno, sei file una sull’altra, per gli spettatori. La piazza, che non so se per caso o ad arte ha già la forma di un teatro antico, diveniva per l’occasione un vero teatro. Fra i posti a sedere e l’area centrale della piazza la pista era delimitata da sbarre e gli instabili stendardi venivano parzialmente coperti con sabbia. L’aspettativa cresceva ogni giorno di più.

E finalmente arrivava il gran giorno. Come sempre le rondini e i rondoni disegnavano i loro arabeschi nella chiara luce dorata sulla città. Ma le loro strida erano coperte dal brusio profondo, continuo e informe della folla che gremiva le strade e la piazza. Sotto la sua volta di pietra il campanone della torre del Mangia oscillava senza posa avanti e indietro; anch’esso sembrava muto. Il cicaleccio, le risa, le grida di quarantamila persone salivano dalla piazza come una solida colonna sonora, impenetrabile a qualsiasi rumore ordinario.

Erano le sei passate. Prendemmo posto in una delle gradinate di fronte al Palazzo Comunale. Il nostro lato della piazza era già nell’ombra; ma il sole illuminava ancora il palazzo e la sua torre alta e sottile, facendo brillare le loro superfici di mattoni rosati come di un fuoco interno. Un’enorme affluenza di popolo riempiva la piazza e tutte le file di posti all’intorno. C’era gente a ogni finestra e perfino sui tetti. Al Derby di Wembley, nei giorni di regate, ho visto folle più vaste; ma mai tante persone confinate in un così piccolo spazio.

Un colpo di fucile risuonò attraverso il frastuono di voci; a questo segnale una compagnia di carabinieri a cavallo irruppe nella piazza, spingendo avanti i ritardatari che ancora affollavano la pista. Erano in alta uniforme, nera e rossa con guarnizioni d’argento; tricorno in testa e spada in mano. Sui loro bei cavallini sembravano uno squadrone di elegante cavalleria napoleonica. Davanti a loro gli ultimi arrivati si affrettarono a infilarsi attraverso ogni possibile varco fra le sbarre fino allo spazio centrale, che presto fu fittamente stipato. La pista fu liberata con un giro al passo e ripercorsa poi al trotto veloce, nel migliore stile Carle Vernet. I carabinieri ricevettero un bell’applauso e si ritirarono. La folla fremeva nell’attesa. Per un momento si fece quasi il silenzio. La campana della torre ridivenne sonora. Qualcuno nella folla lanciò un paio di palloni, che salirono perpendicolari nell’aria tranquilla, una sfera rossa e una porpora. Passarono dall’ombra alla luce del sole, e il rosso divenne rubino, iI porpora scintillante ametista. Arrivati al di sopra dei tetti, una leggera brezza li spinse via, sempre con movimento ascendente, fino a scomparire alla vista.

Ci fu un altro colpo di fucile e Vernet lasciò il posto al Pinturicchio. Il frastuono della folla aumentò, la campana oscillò di nuovo senza suono e le trombe del corteo in arrivo si udirono appena. I rappresentanti delle diciassette contrade della città fecero lentamente il giro della piazza. Oltre il tamburino e i due portastendardi ogni contrada aveva un armigero a cavallo, tre o quattro alabardieri e paggetti e, nel caso delle dieci prescelte per la gara, un fantino; tutti indossavano la divisa alla Pinturicchio nei colori particolari di ogni contrada. Avanzavano lentamente, poiché ogni cinquanta passi si fermavano per permettere ai portastendardi di esibirsi in prove di abilità con le bandiere. Impiegarono almeno un’ora a fare il giro. Ma il tempo sembrava perfino troppo breve. Il Palio è uno spettacolo del quale non ci si stanca. Ormai l’ho visto già tre volte, e l’ultima mi ha divertito come la prima.

I turisti inglesi sono spesso diffidenti a proposito del Palio. Ricordano quelle terribili rievocazioni storiche che erano in gran voga nel loro paese circa quindici anni fa, e pensano che il Palio si riveli qualcosa di simile. Ma voglio rassicurarli; non è affatto così. Non esiste nessuna poesia di Louis Napoleon Parker a Siena. Qui non ci sono cori di fanciulle i cui canti sommessi esprimono elevati sentimenti morali. Non Ci sono scialbi attori-impresari imperfettamente camuffati da Hengist e Horsa, né una folla di comparse gesticolanti vestite con pessimo gusto e addobbi dei più scadenti. Infine, a Siena capita raramente di essere colti dal quasi invariabile accompagnamento delle parate inglesi – la pioggia. No, il Palio è soltanto spettacolo; non ha nessun <significato> particolare ma, per il semplice fatto di mantenere in vita una tradizione, significa infinitamente di più di quei deprimenti pasticci con tutta la loro vuota poesia parkeriana e le loro drammatiche rievocazioni. Tutti questi paggi e armigeri e sbandieratori vengono direttamente da un passato che la pittura del Pinturicchio raffigura così bene. I loro abiti sono quelli disegnati per i loro avi, copiati fedelmente a ogni generazione con gli stessi colori e le stesse ricche stoffe; non le flanelle e i cotoni ma le sete, i velluti, le pellicce. E quei colori furono assortiti, gli abiti tagliati in origine da uomini il cui gusto era quello impeccabile del primo Rinascimento. Non c’è dubbio che oggi ci sono costumisti dal gusto altrettanto raffinato. Ma non erano certo i Paquin, i Lanvin o i Poiret a vestire gli attori di quegli spettacoli inglesi; erano i fabbricanti di parrucche e le sarte da strapazzo. Ho già parlato della bellezza degli stendardi, del loro disegno audace, fantasioso, moderno. Nel Palio ogni altro particolare è in armonia con gli stendardi, originale, estroso, ma sempre appropriato, sempre di un’irreprensibile raffinatezza. L’unica nota falsa è proprio il < Palio> in sé stesso – lo stendardo che viene dato alla contrada il cui cavallo ha vinto la gara. Questo stendardo è dipinto appositamente ogni anno in questa occasione. Guardatelo mentre avanza, esposto orgogliosamente sul grande carro da guerra medievale che chiude la sfilata – guardatelo, o forse è preferibile di no. Sembra uscito dalla collezione di addobbi di uno di quegli spettacoli inglesi. È il capolavoro di una sarta da strapazzo.

Rabbrividendo, si distolgono gli occhi. Preceduto da una fila di paggi del Quattrocento che portano festoni di foglie d’alloro e scortato da una compagnia di cavalieri, il carro da combattimento avanzava lento e pesante, inalberando il poco degno trofeo. A questo punto le trombe in testa al corteo si misero a suonare in modo appena udibile da noi sull’altro lato della piazza. Finalmente tutta la sfilata completò il suo giro intorno alla piazza e si schierò in buon ordine davanti al Palazzo Comunale. Sopra le teste degli spettatori radunati nello spazio centrale vedemmo i trentaquattro stendardi che ondeggiavano in un’ultima esibizione d’insieme, venivano infine lanciati per aria, esitavano un istante al culmine del loro slancio, poi ricadevano fuori della nostra vista. Ci fu uno scoppio di applausi. Lo spettacolo era terminato. Un altro colpo di fucile. E in mezzo ad altri applausi i cavalli della gara furono riportati al luogo di partenza.

Il percorso è di tre giri intorno alla piazza, la cui forma, come ho detto, somiglia a quella di un teatro antico. Ci sono dunque due curve strette dove le estremità del semicerchio incontrano il diametro. Una di esse, data l’irregolarità della pianta, è più stretta dall’altra. In questo punto la parete esterna della pista è imbottita con materassi per impedire ai fantini irruenti, che prendono la curva troppo velocemente, di sfracellarsi. I fantini cavalcano senza sella; i cavalli corrono su un sottile strato di sabbia sparsa sulle lastre di pietra della piazza. Il Palio è forse la corsa in piano più pericolosa al mondo. Ed è resa ancora più pericolosa dal patriottismo esagerato delle contrade rivali. Infatti il vincitore della gara, quando tira le redini del suo cavallo dopo avere oltrepassato il traguardo, è  assalito dai sostenitori delle altre contrade (i quali pensano tutti che il loro cavallo avrebbe dovuto vincere) con una furia così scatenata che i carabinieri devono sempre intervenire a proteggere l’uomo e l’animale dal linciaggio. I nostri posti erano a duecento o trecento metri oltre il traguardo, così avevamo un’ ottima visuale della battaglia che si accendeva intorno al cavallo vincente mentre rallentava l’andatura. Il traguardo era appena superato che la folla già rompeva le file e faceva irruzione sul percorso. Il cavallo avanzava sulla pista, ancora al piccolo galoppo. Una banda di ragazzi si lanciò all’inseguimento, agitando bastoni e gridando. Contemporaneamente, con le code delle loro giubbe napoleoniche sollevate dalla corsa, i tricorni traballanti, brandendo la spada con le mani guantate di bianco, i carabinieri a cavallo accorsero in aiuto. Vi fu una breve lotta intorno all’animale ora fermo, i giovani furono respinti, e circondato dai tricorni, seguito da una folla di sostenitori della sua contrada natia, il cavallo fu portato via in trionfo. Noi abbandonammo i nostri posti. Ora la piazza era completamente in ombra. Soltanto in cima alla torre e sulle merlature del palazzo brillava l’ultimo sole, accendendovi una luce rosata contro il cielo azzurro pallido. Le rondini continuavano i loro giri incessanti lassù nella luce. Si dice che al crepuscolo e all’alba questi uccelli innamorati della luce salgano cielo con le loro ali robuste dare un ultimo addio o un mattiniero benvenuto al sole calante o nascente. Mentre noi ci abbandoniamo al sonno, rassegnati all’oscurità, le rondini guardano lontano dalla loro torre di osservazione nell’ alto dei cieli, fino all’orlo del pianeta ruotante verso la luce. Sarà una favola, mi chiedevo guardando in su a quella ronda vorticosa di uccelli, o è vero? Intanto qualcuno imprecò contro di me che non guardavo dove stavo andando. Rimandai la riflessione.