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Contro le mostre di Montanari e Trione è un libro controcorrente e che ama fare il bastian contrario su tutto e tutti (o quasi tutti) eppure anche un testo stimolante, soprattutto per chi di cultura si occupa, ci lavora, ci vive ma anche per chi la frequenta.
E’ un grido contro le mostre improvvisate, inutili, raffazzonate, contro la business art, contro tutto quello che si finge cultura e invece non lo è. Naturalmente la posizione di Trione e Montanari è radicale: o sei con loro o sei contro di loro ma certo serve a far riflettere, spinge a valutare, a mettersi in gioco.
Vorrei sottolineare in particolar modo tre passaggi:
1. il decalogo di come dovrebbero essere le mostre secondo Tomaso Montanari (e devo dire che, a mio parere, ci ritrovo la posizione di Giovanni Agosti che ha scritto un libello intitolato Le Rovine di Milano su questo tema delle mostre mostruose). Lo trovate a pag. 41 ma lo riporto per esteso sotto.
2. è un invito a frequentare la propria città, il proprio ambiente con l’attitudine di coloro che si accorgono delle cose, si meravigliano e prendono coscienza del valore del luogo in cui vivono, senza nemmeno la necessità di entrare in una mostra o pagare il biglietto di un museo. Occorre camminare la propria città. Il passaggio lo trovate a pag. 47 ma lo riporto per esteso sotto.
3. Anche le guide turistiche hanno un ruolo fondamentale e il testo lo riconosce citando la collega che segnala i danni alle opere esposte a Brera per i bruschi cambiamenti di temperatura dovuti alle porte aperte in occasione di alcune sfilate di moda. Lo trovate a pag. 97 e mette i brividi solo a leggerlo.

A me il libro è piaciuto anche se non condivido tutti i passaggi. Mi è piaciuto soprattutto nella valorizzazione del contesto in cui viviamo e nell’invito a “camminare la città”. E’ quello che sto provando a fare elencando 5 cose, non 10, non 20 ma 5 da osservare durante una passeggiata per Mantova. Occorre uscire per andare a verificare sul posto, occorre alzare gli occhi anche quando si è troppo presi dagli impegni, serve recuperare la capacità di meravigliarsi.
Ecco cosa scrivono gli autori:
“potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un’epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso)”.

Sottoscrivo in pieno!

I riferimenti del libro
Tomaso Montanari – Vincenzo Trione
Contro le mostre
Einaudi 2017

Per chi ha voglia di approfondire riporto i due passaggi per esteso

pag. 41 – Il decalogo delle mostre
1. La mostra deve essere concepita come un mezzo per l’avanzamento della ricerca, e non come un fine in sé. In altre parole , non si deve prima decidere di fare una mostra su un certo argomento per poi mettersi a studiarlo, ma deve accadere esattamente il contrario. Una mostra scientifica ha senso solo se progettata e guidata da coloro che da anni,  e con profitto, si occupano dell’argomento. Ciò significa che gli storici dell’arte che fanno davvero ricerca devono prendere l’iniziativa di proporre le “loro” mostre, invece di accettare il ruolo passivo di “autore del saggio in catalogo”.

2. Deve essere davvero necessaria, cioè non sostituibile con un articolo o un libro, e quindi deve essere costruita e allestita mirando ad un’eloquenza figurativa e formale che parli di per sé sia al pubblico erudito sia a quello generale.

3. Deve presentare un’idea, una scoperta, un’acquisizione, una visione storiografica, o anche la ricostruzione di un nodo storico o stilistico, così rilevanti ed eloquenti da giustificare lo spostamento (comunque rischioso, e sempre potenzialmente dannoso) delle opere.

4. Se si allestisce in un museo, non deve danneggiarlo, svilirlo o disturbarlo in alcun modo.

5. Se alcune delle opere vengono sottoposte a restauro, o comunque subiscono un qualunque tipo di intervento prima, durante o dopo l’allestimento, la mostra deve impegnarsi a documentare tutto ciò scrupolosamente.

6. Si deve decidere di fare davvero la mostra solo dopo aver ottenuto tutti i prestiti, senza indulgere a sostituzioni al ribasso dell’ultima ora (che svelano subito la non necessità della mostra stessa), e senza subire imposizioni di prestiti inutili o dannosi.

7. La mostra deve impegnarsi formalmente a non ricorrere ad alcun tipo di pressione politica, amministrativa, economica, o comunque extraintellettuale, sui direttori dei musei renitenti al prestito.

8. Deve essere dotata di un allestimento e di un apparato didattico a cui dedicare lo stesso tempo, le stessa energie e la stessa autorevolezza spesi per la progettazione della mostra stessa e per la redazione del catalogo. Da questi testi si devono poter evincere chiaramente lo scopo, le tesi e i vantaggi scientifici e culturali della mostra stessa.

9. Il curatore deve conquistarsi l’autorevolezza necessaria a non sottomettere i testi delle schede e dei saggi all’approvazione dei proprietari dell’opera (siano essi musei o privati) o degli sponsors. In generale non deve accettare neanche il più blando condizionamento dell’espressione dell’opinione scientifica degli autori.

10.La mostra deve prevedere le condizioni più agevoli per la visita privata o collettiva degli studiosi e degli studenti, e per ospitare, facilitare e promuovere il dibattito critico più libero ed esteso. Deve infine scoraggiare, o non ammettere, le forme di fruizione più passive e inerti, e invece il curatore deve mettersi in ogni modo al servizio del più vasto pubblico.

Pag. 47 – Il contesto e camminare la città.
Ed ecco il punto: il contesto. Ripetiamolo: il fenomeno delle mostre rappresenta oramai la più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto in tempo di pace. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone, e quello delle opere d’arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della tutela, e su quello della conoscenza, ce n’è anche uno più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini.
Il problema è così vasto, le sue radici così profonde che la vera battaglia si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabù cattedratici, ma mostrando l’attualità e la forza di un modello alternativo.
Un modello come quello della filosofia Slow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l’aspirazione “contestuale” di Slow Food: “non la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città”, ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli “a casa loro”. Bisognava attuare l’idea di Luigi Veronelli , che parlava di “camminare le osterie”, “camminare le cantine”: e da lì “camminare la terra”, “camminare le campagne”.
Insomma: “bisognava rompere la gabbia”, e riconquistare il senso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell’arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l’umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell’arte, parlare al nostro tempo. Perché c’è urgente bisogno di “rompere la gabbia” delle mostre, e di ricominciare a “camminare il patrimonio”.
Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del “chilometro zero”.  Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l’arte del passato un fatto quotidiano.
Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile  di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale , che è il vero capolavoro della storia dell’arte italiana. Invece di andare a vedere una mostra che si intitola “Tuthankamon Caravaggio Van Gogh” (la più visitata del 2015), potremmo camminare  per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, , una cappella, anche solo un portale o un’epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso).
Potremmo iniziare a “camminare” il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno almeno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall’industria culturale – ormai insostenibile – ci farebbe immediatamente vedere l’enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente e che manteniamo con le nostre tasse.
Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell’arte. [NdR in tal senso da non dimenticare il sottotitolo di un libro di Giovanni Agosti, La storia dell’arte libera la testa] Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh[…]
Un grande amore, dirà ancora Calamandrei: “C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo Paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana”. […]
Il 18 aprile del 1937 il volto della Patria andarono a cercarlo in cima al promontorio che fronteggia l’Argentario. La passeggiata, in quella “virginea mattina d’aprile (così la ricorderà Piero) tre le rovine di una città romana: Cosa, sul colle di Ansedonia. Un luogo incantato, oggi come allora:
Tutte le fantasticherie che si possono sognare da una finestra che dà sul mare furono sognate quassù, più di duemila anni fa, da uomini ai quali noi somigliamo anche nel volto. […] Forse è proprio questa consapevolezza della sorte comune che ci rende così cara e così familiare questa terra: il saper che in questa vegetazione che rinasce da millenni su questo strato sempre più spesso di macerie si sono mescolate e fuse le vicende umane che oggi per un istante si incarnano in noi, ci fa sentire per questa terra, anche per i suoi sassi e i suoi arbusti una struggente tenerezza. Qui non si riesce più a capire dove finisca la roccia inanimata e dove cominci il segno lasciato dai viventi; uno stesso senso di pietà, come se si trattasse di parentela, abbraccia le cose e le creature […] e passando accanto ad un cespo di biancospino, fiorito su queste macerie, non so tenermi dal fargli, furtivamente una carezza”.
Dove finisce il paesaggio della natura, dove inizia l’arte dell’uomo?
E’ una domanda senza risposta. Anzi: la risposta è che questa fusione , questa comunione sono il vero capolavoro della nostra storia.
E’ esattamente quello che chiamiamo il contesto: ed è ciò che ci aspetta , se solo troviamo la forza di dimenticare il supermercato delle mostre. Il coraggio di rompere la gabbia.