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Ricordo ancora quando su FB vidi un invito a raccontare la quarantena di Massimiliano Boschini. Non ci ho pensato un attimo e gli ho scritto per dire che mi sarebbe piaciuto partecipare.

L’idea era quella di un libro a più mani (sarebbero diventate 32, considerando che si scrive con una mano sola) dove ciascuno riceveva il testimone dall’autore che lo precedeva e lo passava a chi avrebbe scritto il testo successivo.

Era un’idea intelligente perché la scrittura in presa diretta consente di essere più veri nella descrizione delle proprie emozioni e sentimenti e diventa un punto di riferimento per gli altri per capire cosa è stata la quarantena per chi l’ha vissuta. Non c’erano regole per la lunghezza o la tipologia di testi e quindi questo avrebbe potuto creare la sensazione di un libro senza filo conduttore.

Chi invece avesse voglia di leggerlo il libro (lo può trovare presso la casa editrice SOMETTI a questo link) scoprirà che è molto coerente nella sua diversità di voci.

Ho scelto di pubblicare qui il mio testo per lasciarlo nel 2020, con l’auspicio che rimanga passato, non torni presente e soprattutto non si riproponga nel futuro.31

Testimone ricevuto da Stefano Fontana (sabato 21 marzo 2020 ore 1.34)

Sapessi Stefano quanto mi manca davvero raccontare storie camminando per la città. Provare a mettermi gli occhiali del passato e rivedere una Mantova romana, medievale, rinascimentale, barocca, illuminista, risorgimentale…

Certo, non mi manca solo quello. Anche cose che prima non mi sarebbero mancate. È come quando ti proibiscono qualcosa e tu, da perfetto italiano, hai subito voglia di farla: pantofolai che sognano la maratona, antianimalisti che cercano servizi di dog sharing, pedoni integralisti che vorrebbero sgasare in una supercar, automobilisti incazzati che sognano un viaggio in una metropolitana affollata.

In questi giorni io faccio il telelavoro. Le aziende mi telefonano e mi dicono: “scusi se l’ho disturbata sul cellulare, ma ho visto che avete attivato la modalità smart working e quindi…”.

Tolgo loro ogni dubbio: io di smart non ho mai avuto nulla. Figurati se questo virus che impedisce a tutti di vivere normalmente ha trasformato me in un supereroe. A casa c’è il working che avevo in ufficio. Quando attiverò la modalità smart ve lo farò sapere. Metterò fuori il cartello, così chiunque passa saprà che lì c’è uno smartworker, un supereroe del lavoro.

Siamo i soliti italiani: prima son tutti problemi, poi arriva il problema vero e dopo son tutte soluzioni. È sempre così, per noi: da Caporetto alla crisi del 2009 (che bello sarebbe tornare alla crisi del 2009), al terremoto (che almeno sai come agisce, e se sei in mezzo ad un prato in una tenda stai al sicuro) e adesso al Coronavirus.
Un consulente veneto in questi giorni ha sintetizzato bene questa situazione: “quando l’aqua toca el cul, tuti impara a noar”. Quando l’acqua ti sfiora le chiappe, tutti imparano a nuotare.

E quindi noi che chiamavamo “smart working” il telelavoro per darci un tono, oggi siamo i massimi esperti mondiali della categoria.

Telelavoro è difficile: ti lamentavi dei rumori dell’ufficio e oggi cerchi sul web una compilation di rumori da ufficio per non sentirti solo a casa; ti lamentavi dei colleghi e oggi metti sullo sfondo del desktop le foto di gruppo; ti lamentavi di dover passare le pause pranzo alla scrivania e oggi che la tua scrivania è diventata la tua tavola da pranzo, vorresti tornare a mangiare merendine sulla scrivania.

Ti ricordi di quando dicevi che per te i colleghi erano come una grande famiglia? Ebbene adesso sono moglie e figli ad essere diventati i tuoi colleghi e tu hai nostalgia dell’altra famiglia. Prima in azienda ti potevi sentire come a casa e adesso l’azienda è casa tua. There’s no place like home.

Sembra un film, sembra di essere in un film.
Io ho scelto Le ali della libertà, quello del carcere e di Rita Hayworth con Tim Robbins e Morgan Freeman. Almeno ho degli orari fissi e non perdo la concezione del tempo. Mi alzo, faccio colazione, parlo con gli altri detenuti (mia moglie e mio figlio), ci lamentiamo della prigione e del nostro carceriere, nome in codice Covid-19, poi iniziamo il lavoro riabilitante, poi c’è l’ora d’aria, poi il pranzo, il riposino o la lettura edificante, la televisione che ti vomita addosso numeri e trasforma i morti in statistiche (che fa meno male), la cena e poi si spengono le luci, tutti assieme per non rimanere soli al buio.

Sembra di essere in un esperimento da laboratorio, solo che il mondo è diventato un enorme labirinto dove farci correre come topi. Il sogno di qualsiasi sociologo, se non fosse che anche il sociologo è parte dell’esperimento.

Telelavoro, teletrasporto, televisione. Ebbene sì, ci stiamo riguardando tutta la serie classica di Star Trek, quella del Capitano Kirk, del vulcaniano Spock, del dott. McCoy e dell’Enterprise. Vediamo anche le puntate con i virus impossibili che vengono dallo spazio profondo e che si riescono a guarire solo grazie all’istinto di Kirk, alla logica di Spock e all’umanità di McCoy e vorresti che da Roma in conferenza stampa ci fossero loro tre a raccontarti cosa stanno facendo per risolvere il problema.

Noi intanto abbiamo pensato di costruire un teletrasporto e ce l’abbiamo anche fatta. Abbiamo messo tre sagome rotonde di cartone sul pavimento della biblioteca. Quando sentiamo che dobbiamo uscire da questa situazione ci mettiamo lì e, lasciando almeno uno di noi sul divano per poter tornare indietro dalla smaterializzazione, diciamo: “Scott, energia”, e ognuno va dove vuole e poi torna indietro.

Io negli ultimi giorni sono stato a Milano per le Cinque giornate, a Curtatone e Montanara con i volontari toscani, nell’Italia del Medioevo con il capitano di ventura Giovanni Acuto e nella Fattoria Mckenzie con Lupo Alberto, Mosè ed Enrico la Talpa.

Voglio rivelarvi una cosa: il teletrasporto ce l’avete anche voi. Perché il teletrasporto è in biblioteca? Perché i libri ti fanno viaggiare.

Vabbè, ma è ora di spegnere le luci e il Covid-19 non fa sconti.

Covid-19: vi siete accorti che la misura più efficace per far capire a noi italiani che il Coronavirus era davvero pericoloso è stato trasformarlo in una sigla? È come per le tasse o la burocrazia: quando cominci a leggere Tari, Imu, Tasi (che già ti vien voglia di parlare), Irpef, Dpcm sai di essere fregato e che non c’è scampo.

Coronavirus è un nome da operetta, Covid-19 è una sigla da cui non puoi scappare.

Prima di spegnere mi ripeto un altro mantra veneto: “Viagiar descanta, ma chi parte mona torna mona”. Io mi chiedo ancora se viaggiare in tutti questi anni mi abbia descantato o se invece son rimasto il solito pirla (il mona lombardo).

Quanto vorrei tornare a viaggiare, in questo momento dove viaggiare è anche solo poter andare a Marengo. Invece qui va tutto a ramengo. E allora mi viene in mente che se non posso viaggiare io posso far viaggiare un messaggio, un oggetto, un fiore, una verdura, del vino.

E allora penso: “che bel lavoro fanno le persone che spediscono le cose”, perché adesso ho capito che non trasportano oggetti ma messaggi e sogni e mi vengono in mente gli occhi illuminati di Beatrice quando parla del suo lavoro e capisco che è il più bello del mondo: raccontare storie trasportandole da un luogo all’altro.

E mi chiedo cosa stia facendo in questo momento Beatrice. E prima di chiudere gli occhi sento Kirk, il capitano Kirk che dice: “Alla via così”, e poi vedo la scritta con il conto alla rovescia: tra 10 secondi parte il prossimo episodio, e speriamo sia quello dove facciamo il culo al Covid-19.

Titoli di coda.
Starring Giacomo Cecchin
Co-starring Beatrice Corradini

Testimone passato a Beatrice Corradini (domenica 22 marzo 2020 ore 6.34)