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A chi non piacerebbe scoprire in soffitta un quadro sconosciuto che si rivela essere un Caravaggio (un caso di questo tipo lo potete leggere qui)? Chi non ha sognato almeno una volta di acquistare ad un mercatino una tela che, ripulita e fatta vedere ad uno storico dell’arte, si riveli un Renoir (ecco come può succedere nella vita reale)?
Ebbene in entrambi questi casi di regola entra in gioco uno storico dell’arte che si occupa di attribuzioni come Philippe Costamagna: lo possiamo chiamare un occhio di talento.
E’ un gran bel libro “Avventure di un occhio” quello scritto da questo studioso francese, oggi direttore del Museo Fesch di Ajaccio, che racconta la sua vita di attribuzioni e prova a spiegare a chi non si è mai occupato di attribuzioni come funziona questo particolare settore del mondo dell’arte, a metà tra mercato e storia, tra collezionisti e musei, tra possibilità di sbagliare e la gloria.
Ecco come descrive l’occhio all’inizio del testo:
“Si dice spesso che per l’arte bisogna avere occhio. Io, in queste pagine, vorrei parlarvi di un mestiere affascinante e inaspettato: quello che consiste nell’essere occhio…se lo storico dell’arte per così dire classico può accontentarsi di ricorrere, come il musicologo o lo storico della letteratura, ad una ricca biblioteca e a un vasto repertorio di immagini, quello che io chiamo “occhio” ha la missione di scoprire la paternità dei dipinti con il solo sguardo.Il suo compito è vedere”.
E poi si parte per una serie di avventure che ci spiegano come si può riconoscere un crocifisso di Bronzino dal particolare di un piede illuminato dalla luce, da quale sia il percorso formativo di un “occhio” e da quali possano essere i suoi rapporti con i musei, i collezionisti e i mercanti d’arte.
Philippe Costamagna parla della santa trinità degli “occhi” in storia dell’arte che sono stati Berenson, Longhi e Zeri: tre incredibili personaggi che hanno lasciato non solo una serie di incredibili attribuzioni ma anche luoghi o strumenti con cui ancora oggi si porta avanti la scuola delle attribuzioni. Intense sono le descrizioni dei confronti e dello studio a Firenze a Villa i Tatti, dove visse Berenson e oggi ha sede un centro di ricerca di Harvard e alla Fondazione Longhi, palazzo dove abitò lo storico dell’arte e oggi sede di un museo e di una scuola. Suggestiva la descrizione di Federico Zeri e della sua fototeca, oggi finita all’Università di Bologna.
Ma come fa un “occhio” ad individuare un capolavoro? Ecco cosa scrive Costamagna:
“Gli storici dell’arte tradizionali ignorano gli occhi: ritengono il loro lavoro poco intellettuale, poco scientifico, basato più sui sensi che sulla riflessione. Così facendo, ignorano quanto vi sia di rigoroso e scientifico in esso. Se è vero che per formulare un parere a noi bastano pochi secondi, è perché nei nostri lunghi anni di formazione abbiamo sviluppato sofisticati procedimenti di giudizio e categorizzazione che permettono al nostro occhio di riconoscere le informazioni in modo rapido (pag. 75)”.
Il libro parla poi di altre scoperte, di come funziona il rapporto con gli storici dell’arte tradizionali e soprattutto con i mercanti e di come non sia possibile evitare gli errori.
Ecco come definisce il suo obiettivo dopo una vita di attribuzioni Philippe Costamagna:
“Oggi il mio obiettivo principale non è più moltiplicare la mole di attribuzioni, ma riuscire a mettere le mani su dipinti capaci di trasformare lo sguardo del pubblico, su tutti quei capolavori che, dimenticati nelle case dei collezionisti, nei depositi dei musei o nelle cantine dei mercanti, aspettano solo di vedersi restituire un’identità (pag. 137)”.
Un gran bel libro.

Per approfondire:
Il Museo Fesch
Un’articolo in francese su Philippe Costamagna
Una recensione in italiano sul libro